Presi l’autobus delle ore 08:37 da Corniolo, direzione Campigna. Ero consapevole che un buon pellegrino non si sarebbe lasciato sopraffare dal dolore fisico e dalla stanchezza ma il mio ginocchio non si era ancora completamente sanato. Il giorno precedente, a riposo, avevo favorito la sua riabilitazione e non udivo più quel fastidioso cloc-cloc ma temevo ancora il peggio.
A Santiago ne avevo viste di ogni: un’amica canaria che si trascinava a fatica con un ginocchio gonfio, padre e figlio costretti a procedere con estrema lentezza a causa dell’artrite, pellegrini con le piante dei piedi divelte da vesciche e crampi. A Santiago, nei miei 18 anni, non mollavo un colpo. Una sera, fui costretta a prendere un taxi perché la mia compagna di viaggio non stava bene e rimasi col muso fino al mattino successivo. “Un pellegrino é un pellegrino”, pensavo tra me e me, “e la sua camminata dev’essere un duro sacrificio”.
…ma quella mattina, alla fermata del bus, mi ritrovai a riflettere. Seriamente una persona doveva stirarsi un muscolo, distruggersi le articolazioni o le piante dei piedi per percorrere un Cammino? Non era già abbastanza sacrificio camminare per 20 km e rotti tra gli Appennini o percorrerne quasi 40 nell’aridità spagnola della Meseta? Non erano già intrinsechi nell’atto del “peregrinare” i concetti di devozione, fatica e sacrificio? Arrivai alla conclusione che, se aiutavo il mio corpo in un momento di difficoltà, non facevo nulla di male. Non percorrevo quel cammino perché mi credevo una super eroina e nemmeno perché dovevo espiare particolari colpe. Avevo sempre fatto del mio meglio in vita, mi ero sempre rapportata al prossimo con rispetto. Potevo addirittura godermelo quel Cammino di Assisi!
Mi sarei risparmiata almeno 10 km di salita, in bus. Inoltre, avevo nausea e non avevo chiuso occhio la notte prima. “Signorina, lei é dei nostri?” mi salutò Marcello, il conducente, dopo aver spalancato le porte della piccola corriera che portava in Campigna. Annuendo e sorridendo, mi accomodai dietro alla sua postazione di guida. “Me la porterei a casa, io, lei! Non la lascerei vagare sola nei boschi”. Risi un po’ per circostanza e non gli dissi nulla ma forse preferivo rischiarmela tra i lupi e i cinghiali delle montagne.
Da Campigna a passo della Calla, mi arrampicai per 2 o 3 chilometri verso il confine, tra la Romagna e la Toscana. Attraversai paesaggi stupendi, da racconti di fantasia. Pensai ai miei nuovi compagni di viaggio: Delio (“zio”), Damiano (“papi”) e il vicentino Alessandro. Erano sicuramente qualche chilometro più indietro, a sputare sangue e sudore mentre si consolavano apprezzando quello spettacolo di natura. Proseguii per Poggio Scali immersa nel verde, annusando il profumo delle cortecce, e mi distesi su di una piccola collinetta ad ammirare il panorama a 1520 mt di altitudine. C’era chi diceva che a cielo terso si poteva scorgere il mare da quell’altezza: un pezzo della costiera Romagnola.
Pranzai con un panino alle verdure, un mix di noci e di frutta. Poi ripresi lentamente a scendere continuando sul sentiero 00, detto “La Giogana” che conduceva fino all’Eremo di Camaldoli. Al sentiero venne dato quel nome perché, una volta, i buoi “aggiogati” trasportavano i tronchi di abete e di faggio delle foreste del Casentino lungo il crinale. Quel tratto di sentiero, segnalato come buona parte del Camino di Assisi dal CAI, oggi viene anche chiamato “Parco delle Foreste Sacre”.
Mi impegnai nei miei ultimi 10 km di tragitto fino a quando scorsi, finalmente, l’Eremo di Camaldoli che, bellissimo ed antico, si stanziava su una montagnola immersa nella pace, alla fine dei boschi. Lo visitai e scesi verso il centro del paese per cercare il rifugio della Forestale dove ci avrebbe accolti Martina di Rovigo. Mi sarei spaparanzata al sole dopo essermi riempita il pancino con un pranzo succulento e avrei atteso gli altri miei compagni di viaggio. D’altronde il ginocchio aveva retto bene gli ultimi 13 km e ce lo meritavamo tutto.
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